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La ‘ndrangheta voleva rapire uno dei Berlusconi. La conferma anche dal pentito Grado

In cambio della rinuncia al rapimento del Cavaliere o dei suoi familiari, sarebbero state gettate le basi che nel tempo, avrebbero consentito al gruppo Dell’Utri-Berlusconi di avere rapporti anche elettorali con la Calabria.

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Silvio Berlusconi

REGGIO CALABRIA Il pentito di Santa Maria di Gesù, Gaetano Grado conferma: sul finire degli anni Settanta la ‘ndrangheta progettava di sequestrare Silvio Berlusconi o qualcuno dei suoi familiari, ma Cosa nostra lo avrebbe impedito. «A Berlusconi – ha detto Grado in pubblica udienza al processo palermitano sulla trattativa Stato mafia – volevano spillargli dei soldi. Hanno messo della polvere da sparo che ha fatto il muro tutto nero. C’erano dei calabresi che volevano sequestrare i familiari di Berlusconi e poi Stefano Bontate e Mimmo Teresi sono intervenuti».

Stando a quanto riferito dal collaboratore, il boss della nota famiglia mafiosa Bontate e il suo secondo sarebbero intervenuti personalmente per dirimere la questione. «Una volta vidi Mimmo Teresi che parlava con Stefano Bontate che gli diceva di andare dai calabresi e di presentarsi a nome suo. Mimmo disse che c’era questo problema che Dell’Utri si era lamentato del fatto che qualcuno voleva sequestrare la famiglia Berlusconi, Stefano disse di andare dai calabresi per dire che la cosa interessava a noi». Per il pentito, che già aveva affrontato l’argomento nel 2012 con i magistrati della Procura di Palermo, ad occuparsi delle telefonate intimidatorie a Berlusconi erano stati i fratelli Mazzaferro, dell’omonimo clan di ‘ndrangheta. Per questo, in numero due del clan Bontate – ha riferito in aula il pentito – andò a parlare con loro e al suo ritorno «disse che non c’era problema e che è tutto a posto».

Di Gesù non è il primo pentito a rivelare il progetto delle ‘ndrine di rapire Berlusconi. Il primo a parlarne è stato il collaboratore Angelo Siino, mafioso e massone considerato il “ministro dei Lavori pubblici” di Cosa nostra, che raccontato come a coltivare il progetto fossero state all’epoca le ‘ndrine della Locride. A farle desistere, su richiesta di Vincenzo Cafari, esponente della massoneria spesso comparso nelle inchieste più delicate riguardanti la ‘ndrangheta e i suoi rapporti con i Servizi deviati e la politica eversiva, per il pentito sarebbe stato don Paolino De Stefano, il demiurgo della nuova ‘ndrangheta, organizzazione complessa e stratificata proiettata con diritto di veto su scenari nazionali e internazionali, senza rinunciare a un sanguinoso controllo sulla Calabria.

Stando a quanto riferito da Siino, in cambio della rinuncia al rapimento del Cavaliere o dei suoi familiari, sarebbero state gettate le basi che nel tempo, avrebbero consentito al gruppo Dell’Utri-Berlusconi di avere solidi rapporti anche elettorali con la Calabria. «Tuttavia imporre alle cosche della Locride di abbandonare il progetto ormai alla vigilia della sua esecuzione, avrebbe generato una spaccatura al vertice della’ndrangheta. I Condello appoggiavano le cosche della “Locride”, segnatamente quelle di Platì, Paolo De Stefano le bloccò. Nel farlo, disse che prima o poi avrebbe «schiacciato la testa» ai Condello per la loro disubbidienza. Erano i prodromi di una guerra di mafia che effettivamente nel 1985 esploderà in riva allo Stretto contando, alla fine, quasi settecento morti ammazzati».

 

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